La
Comunicazione interna: verso una infrastruttura tecnica e culturale condivisa
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Buonasera a tutti,
prima ancora di concentrarci sulla protagonista di
questo incontro – la comunicazione interna – è importante definire un macro
concetto che riguarderà tutta la trattazione; secondo Deirdre Quinn-Allan e
Mark Sheehan, autori dell’ottimo Crisis
communication in a digital world (Cambridge University Press, 2015) uno degli obiettivi principali di ogni
organizzazione rimane la tutela della sicurezza delle persone. Dietro
l’apparente semplicità dell’osservazione si cela un principio basilare che
riguarda ogni persona che gravita nell’orbita dell’organizzazione, a
prescindere dal loro status o grado o dal tipo di legame con l’organizzazione
stessa.
Questo macro concetto influenza la visione stessa
della comunicazione interna; i suoi doveri, le sue funzioni e la sua stessa
applicazione.
Ricordiamo tutti le immagini che invasero i
televisori di tutto il mondo all’indomani della caduta di Lehman Brothers,
all’inizio della crisi finanziaria del 2008.
Mentre guardavo quegli uomini e quelle donne uscire dalla sede di uno dei più
antichi istituti finanziari americani con i loro scatoloni di ricordi e,
presumibilmente, di aspettative deluse, mi colpì molto l’espressione dei loro
visi. Non sembravano arrabbiati; alcuni di loro riuscirono anche ad abbozzare
un sorriso mentre rispondevano alle domande dei tanti giornalisti in attesa.
Sembravano, piuttosto, sorpresi da un epilogo così drammatico, così poco
comprensibile per un istituto che, fino a quel momento, aveva rappresentato una
delle certezze più granitiche del mondo finanziario. Come era possibile non
aver avuto il minimo sentore di quello che stava accadendo? Anche considerando
il fatto di non poter conoscere – persino da interno - ogni singola vicenda di una organizzazione così vasta,
come era stato possibile non rendersi conto di una situazione così deteriorata?
Vorrei che rifletteste su questa domanda perché
questo è il punto centrale della questione di cui oggi stiamo dibattendo:
quanto della sfera teorica della comunicazione interna riesce concretamente ad
influenzare le condotte e, più in generale, il clima organizzativo di una
qualsiasi organizzazione?
Sappiamo che, in questi ultimi anni, la
comunicazione interna si è evoluta a tal punto da guadagnare risorse e
competenze e professionisti ad hoc.
Sappiamo anche quali sono i suoi rinnovati obiettivi: garantire la coerenza tra
i valori di cui l’organizzazione si dichiara portatrice ed i suoi effettivi
comportamenti (cfr. Building Belief,
Arthur Page Society, 2012);
allineare le strategie di comunicazione esterna ed interna (cfr. Stockholm Accords, 2010)
e, più in generale, tutelare la relazione fiduciaria tra ogni appartenente
all’organizzazione (a prescindere dalle mansioni e dal livello gerarchico) con
il vertice della stessa.
Sappiamo anche che tutto questo ha un ritorno
importante rispetto alle logiche di produttività e crescita. Chester Elton e
Adrian Gostick – due tra le voci più influenti sulle tendenze nei luoghi di
lavoro – spiegano nel loro libro Impegno
Totale (FrancoAngeli, 2013) come sia fondamentale non solo fornire
strumenti ed ascolto ai dipendenti per permettere loro di destreggiarsi tra le
difficoltà dei loro incarichi (cd. Enablement)
ma anche far comprendere a ciascuno di loro che ogni singola mansione va a
vantaggio di tutta l’organizzazione e quali sono le loro responsabilità nell’economia
degli obiettivi finali (cd. Engagement).
Ogni leader dovrebbe, così, dedicare il 75% del proprio tempo al coaching.
Si tratta di obiettivi e percentuali ambiziose e,
nello stesso tempo, necessarie, soprattutto in un momento in cui i confini tra comunicazione
interna e comunicazione esterna appaiono sempre più sfumati. Dunque, sempre più
interconnessi.
E allora, se sappiamo come e cosa fare; se ne
conosciamo i vantaggi e le necessità, perché ne stiamo parlando?
Sostanzialmente perché, se in molti ambiti alla
teoria è seguita naturalmente l’applicazione, in Italia assistiamo ancora ad un
duplice “scollamento”: per quantità, tra le grandi organizzazioni che bene
conoscono i vantaggi di una corretta comunicazione interna e le piccole medie
organizzazioni che ancora – salvo rari casi – la considerano una inutile
perdita di tempo, considerando la retribuzione, il vincolo economico, come
unico parametro; per qualità, tra chi non si preoccupa minimamente di
applicarla, tra chi ne affida la funzione in maniera superficiale all’ufficio
comunicazione o all’ufficio delle risorse umane e tra chi, al contrario, se ne
occupa in maniera responsabile attraverso una applicazione quotidiana,
personale e continua in ogni “angolo” dell’organizzazione, incluso il più recondito
e periferico.
Il Reputation Manager Luca Poma ha definito la
comunicazione di crisi come l’estensione della comunicazione di ogni giorno;
si tratta di una affermazione di buon senso che interpreta la crisi come
elemento connaturato con la vita di una organizzazione complessa (sottraendola
a quell’aurea fatalista a cui molti si “aggrappano” come alibi per non porre in
essere condotte preventive e di monitoraggio) e responsabilizzando il
management circa la necessità di un processo relazionale costante nel tempo.
Ma cosa accade se quel processo relazionale - già in
“tempo di pace” caratterizzato da mancanze o miopie – viene “portato” in una
situazione di crisi conclamata?
Molto probabilmente, quelle miopie e quelle mancanze
influenzeranno la qualità della risposta, “appesantendo” non solo il processo
di uscita dalla crisi ma anche il programma di rilancio dell’organizzazione. Ed
è anche lecito pensare che questo sia solo il primo step di una crisi nella crisi, tale da “frantumare”
la solidità interna dell’organizzazione, compromettendo il legame fiduciario
tra le parti. Non dimentichiamo, in tal senso, come una crisi (ancora di più
originata da un disastro naturale che colpisce un territorio, e con esso una
comunità, non limitandosi al solo sito produttivo o direzionale ma coinvolgendo, per esempio, anche le
abitazioni delle comunità di riferimento) faccia emergere una serie di paure
che spesso si sovrappongono. Solo per citare le paure emerse dall’esperienza
emiliana, la perdita del proprio posto di lavoro ma anche la paura che
l’azienda decidesse di trasferire altrove le proprie linee produttive, la paura
per l’incolumità della propria famiglia ma anche la paura di perdere la casa.
Si tratta di timori legittimi che, troppo spesso,
vengono sacrificati a vantaggio di una visione comunicativa che rassicura e
dialoga solo con l’azionista o il cliente.
Con ripercussioni importanti non solo sul clima
interno dell’organizzazione ma, ancora di più, sul recupero della business continuity che rappresenta il
primo presupposto di uscita dallo stato di crisi e di rilancio post crisi.
Quali le possibili soluzioni?
Innanzitutto dobbiamo considerare le peculiarità di
una crisi originata da un disastro naturale, l’ampiezza delle aree colpite e,
nel contempo, degli interessi su cui l’evento impatta, rilanciando in capo al
soggetto economico una responsabilità amplificata, non limitata ai soli
elementi economici e produttivi, ma estesa a tutte le istanze provenienti dal
territorio colpito in cui quella organizzazione opera.
Non si tratta di un compito semplice, ancora di più
in uno stato di crisi conclamata, che esige risposte e condotte pronte e veloci.
Ed è per questo che tale attività di ascolto deve essere pianificata e attuata prima di una crisi, per avere il tempo
di strutturarsi tra i comportamenti aziendali trasformandosi in cultura e
prassi aziendale.
Un esempio. Consideriamo il Crisis Team. Si tratta
di un pool di competenze interne all’organizzazione che viene identificato e
successivamente aggregato con il solo scopo di fronteggiare una possibile crisi.
Non a caso, uno dei suoi compiti più importanti riguarda proprio l’analisi
delle aree vulnerabili dell’organizzazione, per scongiurare crisi potenziali.
Ma il Crisis team è fondamentale anche nelle logiche di comunicazione interna,
in quanto detiene il controllo esclusivo di tutte le attività di gestione della
crisi, consentendo all’organizzazione di proseguire in quelle attività
routinarie e quotidiane e, nel contempo, detenendo il flusso informativo in
entrata ed in uscita in maniera univoca e credibile.
Non si può pensare di costituire un Crisis team
nell’imminenza di una crisi o, addirittura, a crisi già conclamata perché si
tratterebbe solo di un gruppo di persone non adeguatamente formate o addestrate
di fronte ad una responsabilità più grande di loro. La cui azione è destinata
al fallimento o, nel migliore e più fortunato dei casi, ad una guerra da
trincea, per proteggere una posizione statica.
Senza contare che un Crisis team adeguatamente
formato è in grado di individuare tutti i pubblici di ascolto predisponendo per
ciascuno strumenti e condotte relazionali ad hoc. Superando il rischio di un
ascolto disordinato e casuale, obbligato proprio dalle contingenze del momento
a selezionare i pubblici più rilevanti sacrificando tutti gli altri.
La capacità di gestire al meglio l’ascolto
organizzato diventa, così, non solo una risorsa tecnica per favorire un più
veloce ritorno alla normalità, ma anche un potente volano psicologico e
relazionale per contrastare quelle stesse paure e quelle stesse dinamiche
emozionali che delle paure sono inevitabile conseguenza. Il caso dell’Aquila è
emblematico.
A fronte di un sistema fortemente centralizzato che non ha tenuto in debita
considerazione i decisori locali e la comunità, è emersa una narrazione
parallela, alimentata da chi, in quel momento, provava timori a cui non veniva
data voce e ascolto. E se da una parte questa narrazione ha arricchito il
flusso comunicativo, dall’altra ha anche originato una deriva generalista e
populista che ha allontanato l’attenzione da criticità ben più sostanziali ed
urgenti nel processo di gestione della crisi.
Qualcuno potrebbe obiettare come improprio
l’accostamento tra una comunità sociale ed una comunità d’impresa, ma di fatto
è così. Anche l’impresa esprime, come un qualsiasi territorio, aspettative,
ambizioni, necessità e paure. Aggiungo, estremamente diversificate tra loro. Ma
tutte, nessuna esclusa, interessate da quella fase di ascolto che non può e non
deve essere parziale.
Volendo provare a riassumere quanto emerso da questa
breve chiacchierata, le parole chiave sono “connessione” e “sincerità”.
La comunicazione interna non rappresenta più solo
uno strumento di governo dell’organizzazione ma amplifica la propria portata,
divenendo primo passo di un processo relazionale più ampio, che contamina la
portata e la resa della comunicazione esterna. Ma perché accada questo, è
fondamentale che il clima comunicativo interno non sia improvvisato o casuale o
indotto da particolari circostanze. Bensì continuamente implementato, tutelato
e monitorato, fino a divenire parte integrante della cultura aziendale.
La sincerità rappresenta una risorsa altrettanto
importante, soprattutto in questa epoca che privilegia la forma alla sostanza.
Un piccolo esempio dal passato. La
situazione bellica non si è sviluppata necessariamente in favore del Giappone.
Il testo del breve comunicato con cui l’imperatore Hiroito annuncia al proprio
popolo, il 15 agosto 1945, la resa del Giappone agli Stati Uniti, sembra
scordare 2 città atomizzate, la distruzione della forza industriale del Paese e
la morte di quasi una intera generazione di giovani. Sono solo una serie di
parole messe una dopo l’altra, l’assolvimento di un compito più che un atto di
attenzione e responsabilità nei confronti del dolore di un popolo sconfitto.
Tra pochi minuti il mio amico e collega Biagio Oppi
vi illustrerà una case history di buona comunicazione interna, ma questo non
può e non deve impedirci di abbassare la guardia nei confronti di un gap ancora
troppo evidente. Ancora troppo capace di influenzare negativamente la ripresa
di una organizzazione.
E siccome abbiamo iniziato con un esempio che tutti
conoscono, vorrei concludere con le parole che il Ceo di Lehman Brothers
Richard Fuld scrisse al proprio pubblico interno all’indomani della caduta:
Gli
ultimi mesi sono stati difficili in misura estrema e sono culminati con il
nostro fallimento. È stato molto doloroso per tutti voi, sia dal punto di vista
personale sia da quello finanziario. Per questa ragione mi sento malissimo.
Queste stesse parole – dettate anche dalla
innegabile pressione ma nel contempo assolutamente inadeguate rispetto
all’impatto dell’evento nella vita di moltissime persone – dimostrano
inequivocabilmente che c’è ancora molto da fare.
Forse non in termini tecnici.
Sicuramente a livello culturale e sociale.
Grazie per la Vostra attenzione
Breve
bibliografia di riferimento
Benson, C.; Clay, E.J., Understanding the Economic and Financial Impacts of Natural Disasters, in
Disaster Risk Management Working Papers
4, Washington D. C., The World Bank, 2004;
De
Maria, C. (a cura di), Bologna futuro: il
modello emiliano alla sfida del XXI secolo, Clueb, 2012;
Geipel,
R.; Pohl, J.; Stagl, R., Opportunità,
problemi e conseguenze della ricostruzione dopo una catastrofe. Uno studio nel
lungo periodo sul terremoto in Friuli dal 76 all’88, Aviani Editore, 1990;
Lagadec, P., Crisis
management, FrancoAngeli, 2002;
Muzi
Falconi, T., Gorel. Governare le
relazioni, Il Sole 24 Ore, 2004.
Muzi Falconi, T., Global
Stakeholder Relationships Governance. An Infrastracture, Palgrave
MacMillan, 2013.
Norsa,
L., Crisis Management, Edizioni
Simone, 2002.